Conformità edilizia di un’immobile

L’IMPORTANZA DI VERIFICARE LA CONFORMITÀ EDILIZIA IN CASO DI UNA COMPRAVENDITA.

Sono molti gli aspetti che possono creare problemi in una compravendita; uno di questi è sicuramente la conformità urbanistica ed edilizia, in quanto, determina o meno, la commerciabilità del bene.

Per contrastare l’abusivismo edilizio, la Legge attualmente in vigore prescrive che, pena la nullità dell’atto, non è possibile vendere o acquistare immobili che non siano conformi dal punto di vista edilizio.

Ecco come verificare la conformità urbanistica ed edilizia di un immobile.

CONFORMITÀ CATASTALE NON VUOL DIRE CONFORMITÀ URBANISTICA ED EDILIZIA.

Diversamente da quanto si pensi, ciò che permette di verificare la presenza o meno di un abuso edilizio non è mai il Catasto, ma solo il titolo edilizio depositato nel Comune o nel Municipio di riferimento.

La conformità urbanistica è la corrispondenza tra lo stato di fatto dell’immobile in cui si trova ed il titolo abilitativo (progetto approvato dal Comune e depositato presso l’ufficio tecnico) con cui è stato realizzato o modificato lo stesso.

I titoli abilitativi possono essere i seguenti:

Licenza edilizia: per gli edifici edificati tra il 17.10.1942 e il 30.01.1977 con la Legge 1150

Concessione edilizia: per gli edifici edificati tra il 30.01.1977 e il 30.06.2003 con la Legge 10

Permesso di Costruire: per gli edifici edificati dopo il 30.06.2003 con il Testo Unico DPR380/01

Altri titoli per interventi minori: DIA, SCIA

Oltre ai titoli sopra menzionati, anche i condoni edilizi concorrono a rendere un immobile regolare dal punto di vista edilizio quando viene rilasciata dal comune, a seguito della richiesta di regolarizzazione di abusi edilizi, la Concessione in sanatoria.

I condoni sono stati tre: nel 1985, nel 1994 e nel 2003.

Nella fattispecie il Comune di Roma, per edifici realizzati ante 1942, ed in mancanza di altri titoli, riconosce come documento attestante la preesistenza le planimetrie catastali di impianto del 1939/1940.

Il Regolamento edilizio del Comune di Roma del 1934 (ancora vigente) prescriveva già la necessità di ottenere licenza edilizia per le nuove costruzioni.

IL COMPITO DEL NOTAIO.

Nell’atto di compravendita, il notaio è obbligato ad indicare gli estremi del titolo abilitativo che ha permesso la realizzazione o la modifica dell’immobile fatte salve le seguenti eccezioni:

  • per gli immobili precedenti al 1942, purché l’immobile non sia stato interessato da interventi edilizi negli anni successivi, non vi sono problemi in quanto non era entrata ancora in vigore la Legge urbanistica che obbligava la presentazione della Licenza edilizia
  • per gli immobili realizzati prima del 1° settembre 1967non è necessario inserire nell’atto notarile gli estremi della Licenza edilizia

Come accennato, la prima legge urbanistica è del 1942 e da quell’anno sino al 1967, sono state rilasciate moltissime Licenze edilizie.

Il fatto che i notai non siano obbligati ad inserire nell’atto gli estremi del titolo abilitativo per gli immobili antecedenti al 1° settembre 1967, non esclude che possa sussistere un rischio di abusivismo pertanto, è necessario verificarne comunque la conformità urbanistica.

Quindi fai attenzione a non confondere la conformità urbanistica con la commerciabilità dell’immobile.

COME VERIFICARE LA REGOLARITÀ URBANISTICA ED EDILIZIA DI UN IMMOBILE.

In linea di principio, per verificare la regolarità urbanistica ed edilizia di un immobile, si fa riferimento all’ultimo titolo abilitativo che dovrebbe verificare tutti i titoli abilitativi nel tempo ottenuti dalla costruzione fino al momento della verifica.

Una volta in possesso di tutta la documentazione reperita in comune (tavole grafiche, relazioni, documentazione fotografica, etc…), si dovrà verificare accuratamente la presenza o meno di difformità (tramezzi spostati, finestre o porte tamponate, chiusura di balconi, etc…).

Le verifiche possono dare esiti differenti:

  • Verifiche con esito positivo: l’immobile risulta conforme con il titolo abilitativo rilasciato dal Comune.
  • Verifiche con esito negativo: l’ immobile non risulta conforme con il titolo abilitativo rilasciato dal Comune. In questi casi, prima di procedere con la compravendita di un immobile, si dovrà regolarizzare l’abuso presentando una pratica edilizia in sanatoria.

Attenzione: non è sempre possibile sanare gli abusi e in questo caso sarà necessario riportare lo stato di fatto come nell’ultimo progetto autorizzato dal Comune.

Nei casi più complessi, dove le opere abusive hanno previsto la realizzazione di aumenti di volume e/o superficie, l’iter da seguire prevede la verifica preliminare della possibilità di sanare l’abuso e la successiva presentazione della sanatoria onerosa.

Gli edifici del tutto abusivi, generalmente difficilmente sanabili, potrebbero risultare del tutto invendibili.

Non sono sanabili in nessun caso le opere che hanno coinvolto strutture portanti; in questo caso è necessario verificare la normativa strutturale al tempo dell’abuso ed eventualmente studiare la possibilità di far redigere, da un tecnico abilitato, una relazione di “mancanza di pregiudizio”.

CHI È RESPONSABILE DEL CONTROLLO SU EVENTUALI ABUSI EDILIZI?

Una sentenza della Cassazione (n. 11628 del 26 marzo 2012) ha previsto che la conformità urbanistica è dichiarata dal venditore e quindi il notaio non ha l’obbligo di verificare che la dichiarazione sia vera.

Anche l’Agenzia Immobiliare non ha alcun obbligo né responsabilità sulla effettiva presenza o meno di abusi.

Quindi, la responsabilità è e rimane del venditore fino a quando l’immobile non sarà venduto; con la formula presente nei rogiti “l’immobile viene acquistato nello stato di fatto e di diritto in cui si trova”, l’acquirente erediterà anche eventuali abusi o irregolarità edilizie.

In conclusione, se l’immobile non è mai stato autorizzato da un titolo abilitativo non potrà essere venduto mentre in caso di abusi minori, potrà essere venduto con l’acquisizione da parte dell’acquirente, della responsabilità.

CONDOMINIO, PER LA CANNA FUMARIA NON SERVE IL CONSENSO

Condominio, per la canna fumaria non serve il consenso

Tar Campania: autorizzazione edilizia valida senza il permesso degli altri condomini

18/10/2013 – Il permesso rilasciato per la realizzazione di una canna fumaria sulla parete esterna di un condominio non deve essere convalidato dall’autorizzazione condominiale. Lo ha deciso il Tar Campania con la sentenza 1985/2013.
In altre parole, perché un’autorizzazione edilizia sia valida non è necessario il consenso degli altri condomini.

A detta del Tribunale Amministrativo, che si è pronunciato contro un provvedimento del Comune che aveva subordinato la validità dell’autorizzazione edilizia al possesso dell’autorizzazione condominiale, la realizzazione di una canna fumaria rientra tra gli interventi ammessi dall’articolo 1102 del Codice Civile. L’articolo consente al condomino di apportare modifiche, volte a trarre un’utilità aggiuntiva dal bene comune, senza il consenso degli altri condomini.

Tra questi interventi c’è, secondo il Tar, l’installazione sul muro di elementi ad uso esclusivo di un’unità immobiliare, purché non si precluda agli altri condomini l’uso del muro e la portata dell’intervento non sia tale da alterarne la destinazione normale.

Secondo il Tar, gli accertamenti sulle attività edilizie svolte dai privati devono valutare solo la conformità alle norme urbanistiche e il rispetto dei diritti dei terzi, ma non si possono condizionare i rapporti tra privati.

Il Comune, quindi, non ha l’obbligo di verificare che non sussistono limiti di natura civilistica per la realizzazione di un’opera edilizia. Al contrario, ha concluso il Tar, il Comune deve accertare che il richiedente sia nella posizione di effettuare un intervento di trasformazione urbanistica, cioè che sia il proprietario dell’immobile su cui è effettuato l’intervento o che abbia un idoneo titolo di godimento sullo stesso.
Allo stesso tempo, per il Tar l’Amministrazione non è tenuta a svolgere istruttorie complesse che potrebbero aggravare il procedimento.

Il distacco dall’impianto centralizzato

Con la riforma del condominio si devono fare i conti con l’esistenza di un diritto “codificato” al distacco, in contrasto con disposizioni comunitarie, nazionali e regionali.

Il riscaldamento è tra le più rilevanti, se non la più consistente, voce di spesa del bilancio familiare: di qui non solo l’interesse per l’argomento ma anche l’elevata conflittualità in ambito condominiale. Per tale ragione, nei giorni successivi all’approvazione della Riforma del Condominio (Legge 11.12.2012 n. 220), i media hanno amplificato il tema del distacco dal riscaldamento centralizzato, sebbene l’argomento non abbia alcuna connotazione di novità e nemmeno, ormai, di fattibilità e convenienza, come ben sanno gli operatori del settore. Il legislatore, infatti, ponendosi in controtendenza rispetto a tutta la più recente normativa sulle prestazioni energetiche degli edifici, ha semplicemente codificato un orientamento giurisprudenziale che si era consolidato negli anni, su presupposti tecnici e normativi superati.

La Riforma del condominio introduce un ultimo, nuovo comma, all’art. 1118 del Codice Civile, in base al quale il condomino può rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, a condizione che dal suo distacco non derivino squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini. In tal caso è previsto che il rinunziante concorra al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell’impianto e per la sua conservazione e messa a norma.

BASTA DIMOSTRARE L’ASSENZA DI SQUILIBRI DI FUNZIONAMENTO. Nell’ambito dei lavori parlamentari era stata inizialmente proposta e approvata una diversa formulazione della norma che prevedeva, quale presupposto del distacco, l’esistenza di problemi tecnici dell’impianto condominiale, non risolti dal Condominio nell’arco di una intera stagione di riscaldamento e, di conseguenza, una inadeguata erogazione di calore nell’appartamento del condomino interessato. Nella formulazione finale, il legislatore ha optato invece per un recepimento tout court del diritto al distacco dal centralizzato, così come già configurato dalla giurisprudenza: il solo presupposto richiesto (peraltro non così scontato da attestare da parte del tecnico) continua ad essere l’assenza di squilibri di funzionamento o di aggravi di spesa per gli altri condomini.

Pannelli solari

l’assemblea condominiale non può negare l’autorizzazione

L’assemblea non può negare l’autorizzazione a un condomino di installare sul tetto comune dell’edificio i pannelli solari per la produzione di energia alternativa a suo uso personale. Può solo limitarsi a prescrivere adeguate modalità alternative di esecuzione dell’intervento, se questo comporta la modifica delle parti comuni, o a imporre le opportune cautele apannelli solari termici salvaguardia delle stabilità, della sicurezza o del decoro architettonico dell’edificio: il tutto con una delibera che deve essere approvata con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti in assemblea e i due terzi del valore dell’edificio.Con le stesse maggioranze può decidere sulla ripartizione dell’uso delle parti comuni interessate dalla posa dei pannelli solari, nel caso in cui più condomini ne facciano contestuale richiesta. Lo ha chiarito il tribunale di Milano che, nella sentenza 11707 del 7 ottobre scorso, ha applicato le disposizioni dell’articolo 1122-bis del Codice civile, introdotto dalla riforma del condominio (legge 220/2012).Il caso è stato sollevato da un condomino, che aveva impugnato la decisione con cui l’assemblea gli aveva vietato – sulla base di generiche e non provate problematiche inerenti la lesione del decoro architettonico e della stabilità dell’edificio condominiale – di posizionare sul tetto comune i pannelli fotovoltaici a proprio uso esclusivo. L’articolo 1122-bis del Codice civile concede la possibilità al condomino, tra l’altro, di installare pannelli solari senza necessità di ottenere il preventivo consenso dell’assemblea, sulla falsariga di quanto disposto dall’articolo 1102, comma 1, del Codice civile, di cui l’articolo 1122-bis costituisce ipotesi applicativa.L’intervento deve però essere eseguito in modo tale da arrecare il minor pregiudizio possibile sia alle parti comuni dell’edificio, sia alle unità immobiliari di proprietà dei singoli condomini. Tanto che l’articolo 1122-bis, al comma 3, impone al condomino di interpellare l’assemblea solo qualora le opere che intende eseguire comportino delle modificazioni delle parti comuni interessate dai lavori, obbligandolo a indicare all’amministratore il «contenuto specifico» degli interventi e le «modalità» con cui vuole porli in essere. L’assemblea, pertanto, è chiamata a intervenire solo quando l’impianto voluto dal condomino renda necessario modificare le parti comuni condominiali.In questo caso, si applica l’articolo 1102 del Codice civile, secondo cui ciascun condomino può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. Senza interpellare l’assemblea, il condomino è dunque legittimato a installare, in base all’articolo 1122-bis del Codice civile,un proprio impianto per la produzione di energia da fonti rinnovabili.Nel caso esaminato, il giudice milanese ha ritenuto che il comportamento dell’assemblea, negando al condomino il consenso all’installazione dell’impianto fotovoltaico, abbia esercitato una facoltà non consentita dalla legge e abbia violato il diritto soggettivo di un condomino all’utilizzo delle parti comuni. Il tribunale ha quindi dichiarato l’invalidità della delibera dell’assemblea.